Il bunker del potere democristiano
Todo Modo esce nelle sale il 30 aprile 1976, a meno di due mesi dalle elezioni amministrative che vedranno la Democrazia Cristiana affrontare l'offensiva del Partito Comunista. Il timing non è casuale: Elio Petri, insieme allo sceneggiatore Berto Pelosso, ha realizzato quello che la critica definirà "un forsennato libello di stile espressionistico e di contenuto fantapolitico" contro il partito di maggioranza.
Dal romanzo di Sciascia al cinema di Petri
L'adattamento dell'omonimo romanzo di Leonardo Sciascia (1974) tradisce completamente lo spirito dell'opera originale. Se nel libro l'albergo Zafer è un lussuoso rifugio dove i notabili democristiani si riuniscono per gli esercizi spirituali, nel film di Petri si trasforma in un bunker sotterraneo claustrofobico, "gelidamente tagliato come un luogo d'incubo". La scenografia di Dante Ferretti contribuisce a creare un'atmosfera sepolcrale che riflette la visione apocalittica del regista.
Scompare la scrittura allegorica e allusiva tipica di Sciascia, sostituita da un "pesante attacco frontale alla Democrazia Cristiana rappresentata come il partito del malaffare ormai in disfacimento". Lo stesso Sciascia, pur difendendo successivamente il lavoro del regista, ammette: "Todo Modo l'ho scritto in polemica con la chiesa cattolica ed in fondo con me stesso. Petri, mi pare, abbia fatto invece un film antidemocristiano."
[Didascalia immagine - opzionale]
Un "presidente" che somiglia troppo a Moro
Al centro del film domina la figura di "M", il presidente interpretato da Gian Maria Volonté in una "mimetica imitazione di Aldo Moro di cui mette in evidenza, portandoli all'esasperazione, tic e posture". L'attore aveva studiato minuziosamente i comportamenti, i discorsi e la gestualità di Moro, tanto che Petri ricorda come i primi due giorni di riprese furono cestinati perché "la somiglianza tra i due era imbarazzante, prendeva alla bocca dello stomaco".
Il personaggio è un "sublime tartufo" che si abbandona a "torbide effusioni" con la moglie (Mariangela Melato) tra una preghiera e l'altra, mentre intorno a lui i notabili del suo partito si dilanirano per una nuova spartizione del potere, ignorando completamente le prediche di don Gaetano (Marcello Mastroianni), il gesuita che dovrebbe guidare i loro esercizi spirituali
Un film nell'occhio del ciclone
L'uscita di Todo Modo scatena immediate polemiche. Nelle settimane precedenti si parla di possibili interventi censori e di pressioni per rimandare la distribuzione dopo le elezioni. La commissione di censura concede tranquillamente il visto, limitandosi al divieto ai minori di 14 anni, ma si vocifera di tentativi di boicottaggio da parte dell'industria cinematografica su pressione di "notabili democristiani".
La critica divisa
La critica si divide nettamente lungo le linee politiche dell'epoca. Giovanni Grazzini sul Corriere della Sera stronca duramente il film:
"Costruito come una commedia grottesca che sconfina nel simbolico e nel fantastico, il film rimane però vittima del suo stesso virulento pessimismo lasciando alla fine l'impressione di un'opera inutilmente apocalittica e narrativamente squinternata."
Ancora più feroce il critico della Stampa:
"Todo modo, è un forsennato libello di stile espressionistico e di contenuto fantapolitico, contro il partito di maggioranza [...] Un Petri così scomposto dalla bile politica [...] induce lo spettatore di buon senso a dare indietro, a dubitare, ad avvertire l'esagerazione. La satira, per tagliare veramente, vuole misura, e qui la misura è data dalla smisurata acrimonia di parte quale può trovarsi in certa stampa caricaturale di estrema sinistra."
Diverso l'accoglimento della stampa di sinistra. Tullio Kezich sulla Repubblica esalta la "visione apocalittica dell'Italia di oggi":
"Che cosa vuol dire questa parabola? Il significato è evidente. C'è una classe politica indegna, che si sta autodistruggendo e i cui resti andranno spazzati senza pietà se vogliamo salvarci dall'epidemia. [...] Con gente come questa, afferma il film, non c'è possibilità di conciliazione, né di compromesso più o meno storico: bisogna lasciare che si distruggano a vicenda e, all'occorrenza, dargli una mano per compiere l'opera di eliminazione."
Più cauto Alberto Moravia sull'Espresso:
"Il fatto di avere tenuto la vicenda nei limiti angusti della nostra attuale situazione politica ha finito per dare al film un'aria di pamphlet, con tutto ciò di violento, di contingente e di sommario che comporta il termine. [...] Il solo sentimento che anima il film è l'odio contro il gruppo dirigente oggi al potere in Italia, presentato, in un'aria grottescamente apocalittica, come una consorteria di anime morte in corpi provvisoriamente ancora vivi."
Anche l'Unità, pur riconoscendo al film il merito di svolgere "un discorso sul Potere", nota come
"la scissione tematica e stilistica è continua" e come "allusioni ironiche, magari spicciole, a risaputi esponenti della nostra vita pubblica cedono bruscamente il passo a toni da apocalisse."
Il caso Moro e la damnatio memoriae
Il rapimento e l'uccisione di Aldo Moro, avvenuti meno di due anni dopo l'uscita del film, trasformano Todo Modo nel "film più scomodo della cinematografia italiana". La rappresentazione di Volonté, che ritrae il presidente come un "mellifluo tartufo invischiato nei giochi di potere", stride violentemente con l'immagine del "grande statista" che si sta affermando nell'opinione pubblica.
Il film viene di fatto censurato: scompare dalle sale cinematografiche e diventa tabù per tutte le reti televisive pubbliche e private. Solo nel maggio 1986 viene riproposto su Canale 5 oltre la mezzanotte, in un passaggio che i giornali sottolineano come "eccezionale". La completa riabilitazione arriva solo nel 2014 con il restauro della Cineteca Nazionale di Bologna e la presentazione alla Mostra del Cinema di Venezia.
L'involuzione stilistica di Petri: dalla realtà al grottesco
Todo Modo segna il punto di approdo di un'evoluzione stilistica che allontana progressivamente Elio Petri dal cinema diretto e realistico dei suoi capolavori. Film come "Indagine su un cittadino al di sopra di ogni sospetto" (1970) e "La classe operaia va in paradiso" (1971) - realizzati in collaborazione con lo sceneggiatore Ugo Pirro - descrivevano la realtà sociale e politica italiana con tagliente precisione, ricorrendo al grottesco solo nei finali onirici che liberavano la tensione narrativa.
La rottura della collaborazione con Pirro spinge Petri verso un cinema sempre più metaforico e simbolico. Già "La proprietà non è più un furto" (1973) aveva mostrato questa tendenza, ma Todo Modo rappresenta il definitivo abbandono del realismo in favore di quello che la critica francese definisce "spettacolo sarcastico, pamphlet di fantapolitica, film surrealista ben connotato rispetto a una realtà chiaramente identificabile."
Come osserva Hubert Niogret su "Positif", "Petri porta ancora più avanti la forma della farsa nera e grottesca già utilizzata in La proprietà non è più un furto. Si vedano ad esempio, in questo nuovo film, la classificazione dei personaggi, il gioco eccessivamente manieristico ma superbamente controllato di Gian Maria Volonté, e la messa in scena sempre più assurda degli omicidi."
Questa scelta stilistica, pur mantenendo alta la qualità tecnica dell'opera, finisce per compromettere l'efficacia politica del messaggio. Il ricorso sistematico all'allegoria e al simbolismo crea quella "scissione tematica e stilistica" che la critica dell'epoca non manca di sottolineare, allontanando il film dalla concretezza sociale che aveva caratterizzato i precedenti successi del regista.
Un cast di altissimo livello
[Il cast è di altissimo livello: oltre a Volonté e Mastroianni, spiccano Mariangela Melato, Michel Piccoli, Ciccio Ingrassia (che "sembra un ritratto di El Greco rifatto da Daumier"), Franco Citti, Renato Salvatori. Le musiche di Ennio Morricone, la fotografia di Luigi Kuveiller e il montaggio di Ruggero Mastroianni completano un'opera tecnicamente impeccabile.
Un'opera profetica
A distanza di quasi cinquant'anni, Todo Modo mantiene intatta la sua forza dirompente. L'intuizione di Petri e Sciascia - quella di una classe dirigente in disfacimento che celebra il proprio potere in una "cerimonia estrema" - si è rivelata tragicamente profetica. Il film rimane una testimonianza fondamentale di come il cinema degli anni Settanta abbia saputo leggere e anticipare le contraddizioni del sistema politico italiano.
La definizione che ne diede lo stesso Moro dopo averlo visto - "disgustoso ma inevitabile" - coglie perfettamente l'essenza di un'opera che continua a interrogarci sul rapporto tra potere, corruzione e democrazia negli anni più difficili della nostra Repubblica.